La nascita di un figlio è un evento di per sé assai complesso e delicato per i genitori; a maggior ragione lo è la nascita di un bambino con Spina Bifida, per tutto ciò che necessariamente implica tale malformazione.
Nessuno, infatti, sceglie di esser genitore di un bambino con handicap, non si è mai preparati abbastanza e spesso la responsabilità è così faticosa che spaventa, demoralizza.
La nascita di un bambino con Spina Bifida è spesso drammatica, specie se in assenza di diagnosi prenatale, e mette a dura prova l’equilibrio e le sicurezze della coppia, sconvolge l’esistenza, costringendo a modificare radicalmente abitudini, ritmi di vita e a fare in taluni casi rinunce importanti.
Tuttavia, l’handicap di un figlio non deve essere necessariamente visto come l’handicap della famiglia e non per forza è causa di instabilità. Le reazioni possono essere infatti molto diverse, non tutti attraversano gli stessi stati emotivi: alcuni rimangono preda di rabbia e dolore, altri non provano alcuna forma di rifiuto, altri ancora accettano la situazione e vi si adattano in fretta. In sostanza, ognuno reagisce in modo personale.
La patologia cronica può interferire pesantemente nel processo di crescita del bambino. I genitori possono avere difficoltà nel riconoscere il bambino-persona nascosto dalla patologia e possono comportarsi come terapisti, infermieri, educatori, perdendo così di vista il bimbo reale, che rinuncia nel tempo ad esprimere le sue esigenze, inibendo le sue potenzialità. Il bambino con Spina Bifida, infatti, assume spesso il ruolo “sociale” di figlio più piccolo.
Il legame tra il bambino e il genitore diventa così un legame di dipendenza specie nelle prime fasi della vita, che talvolta però va al di là di ogni limite normale: un figlio con Spina Bifida ha bisogno di cure e quindi diventa più facile trattarlo sempre come un bambino, senza dargli autonomia.
La famiglia, nella maggior parte dei casi, si trova ad affrontare, sin dall’inizio, problematiche pesanti direttamente correlate alla patologia, ed il problema “autonomia” viene spostato in là nel tempo, non perché sottovalutato, ma perché meno urgente. Occorre però sottolineare che nel tentativo di proteggere il proprio figlio, di evitargli momenti di tristezza, si rischia di non farlo crescere.
Quando è il momento di andare a scuola, poi, non sempre ci si interroga su come il bambino o l’adolescente vivano la propria diversità rispetto ai compagni.
Spesso si dà per scontato che il bambino non abbia una consapevolezza adeguata del proprio deficit, e proprio per questo sia sufficiente dimostrargli tanto amore e tanta comprensione.
Non basta.
Non basta perché il “nostro” bambino è consapevole della sua diversità.
Il bambino cresce, così arriva in un lampo l’adolescenza, fase critica. Adolescenza vuol dire crescita, dalla parola latina “adolescere” = crescere. L’adolescenza è il momento dei repentini cambiamenti. E’ un periodo di grossi contrasti, perché se da una parte si desidera crescere, dall’altra c’è anche molta paura e bisogno del genitore.
Questa età è molto spesso caratterizzata da dipendenza e autonomia, attività e passività, ribellione e sottomissione, altruismo ed egoismo, ottimismo e pessimismo, dedizione e indifferenza, conflitto con i genitori e consenso. Questa bipolarità è tipica di ogni adolescente, ma nell’handicap può risultare più intensa. Con l’età, infatti aumenta la consapevolezza della diversità e la possibilità di conoscere meglio la propria disabilità.
Arriva un momento in cui l’addolcimento della situazione non regge più ed è la crisi per i ragazzi e per i genitori. Ci sono domande che fanno paura (“Perché proprio io non posso camminare? Perché non posso correre? Guarirò?”) e che un genitore non vorrebbe sentirsi fare mai. Sono un colpo al cuore, però è indispensabile rispondere perché, altrimenti, tradiamo la fiducia di nostro figlio e lo scoraggiamo. Il non rispondere o l’essere vaghi, il deviare l’argomento è in realtà un lasciare soli i ragazzi con i loro interrogativi e anche un confermare le loro paure. E’ comunque bene rispondere limitatamente a quanto ci viene chiesto, senza andare oltre, senza anticipare (perché il ragazzo potrebbe non essere pronto). La negazione della realtà oppure attuare strategie di aggiramento dei problemi lasciano i ragazzi deboli, sprovveduti (e fanno capire loro quanto anche noi siamo spaventati e non sappiamo da che parte cominciare per aiutarli).
E’ importante che il figlio si senta amato così com’è, ancor prima di essere corretto, curato, che cammini o no: sarà più facile per lui sentirsi desiderabile e avere voglia di donarsi. Noi adulti siamo portati a pensare che i bambini, in modo particolare quelli con maggiore difficoltà, siano SOLO portatori di bisogni (che è in parte vero), ma questo modo di pensare condiziona quello che noi facciamo per loro.
E’ necessario che tutti insieme, famiglie ed operatori, aiutino i ragazzi a crescere e ad aumentare la loro autonomia ed autostima.
Il futuro non deve far paura, va invece costruito giorno per giorno.